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zuppa

21 novembre 2019

E NOI, CHE NON SIAMO MAI ABBASTANZA

 

E’ il tempo della fine dell’estate.

Uno splendido settembre mi sta per abbracciare di nuovo con il tepore di una pashima leggera che si tira fuori dalla borsa il pomeriggio quando comincia a raffrescare.

Quando ero adolescente leggevo sempre una rivista che si chiamava “Moda”.

Nel numero di agosto iniziavano a pubblicare le collezioni autunno/inverno ed io fantasticavo prendendo mentalmente nota del maglione arancio di lana che avrei voluto comprare, del paio di stivali con il tacco alto di pelle marrone, della maxi borsa nera e di un profumo dai toni più caldi e speziati.

Non ho mai comprato niente.

Comunque, quel rito mi serviva per entrare in un’atmosfera, fatta di aria più fresca, di luce del giorno che comincia ad accorciarsi quando il pomeriggio siamo sempre fuori per qualche commissione e si sente il bisogno di rientrare in casa e di accendere la luce piccola, quella accanto al divano.

E’ stata un’estate troppo veloce a passare e anche molto faticosa.

Mi lascia un po’ triste per le cose che non sono riuscita a fare – cucinare una zuppa, cominciare a correre, portare il pranzo la domenica al mare e mangiarlo in pineta, organizzare qualche cena con gli amici in giardino sotto l’olivo illuminato da un filo di luci dorate – e mi fa sentire in colpa per non essere riuscita a farle.

Si sbaglia, forse -sbaglio, forse- ad avere una aspettativa così alta sulla qualità del quotidiano, a sperare che i giorni siano composti di una proporzione più equa di piccoli piaceri.

In questo momento, mentre scrivo, mentre ci sono tuoni in lontananza e questa musica invade le mie stanza, ripenso alle giornate delle donne di una volta.

Giornate fatte di zuppe sul fuoco per ore e lenzuoli messi la mattina fuori a prendere aria, di una spesa fatta scambiando sempre due chiacchiere con il panettiere prima, il verduraio poi e il  macelllaio alla fine. Di frutta, scelta annusandola e girandosela tra le mani. Di panni stirati direttamente sul tavolo ricoperto da grosse coperte nere e di panni lavati -io me lo ricordo ancora- tutte insieme alla fonte comunale – bucati che duravano tutto il pomeriggio e che lasciavano le donne sfiancate e doloranti nelle braccia. Di stufe a legna da caricare di ciocchi presi giù in cantina, di stoviglie da lavare a mano, asciugare e lasciare stese un po’ sul tavolo di cucina così non si sciupano -come diceva mia nonna-.

Poi penso a noi.

Alle nostre lauree cum laude attaccate alle pareti degli studi professionali, all’entusiasmo che mettiamo nei nostri lavori, a come questo ci fa guardare il mondo dall’alto di un altopiano di fierezza e di soddisfazione quando siamo con addosso il nostro camice, la nostra toga, davanti al microscopio o ci mettiamo il caschetto per entrare in un cantiere, o riponiamo l’arma nell’armadietto della Caserma.

Penso a noi.

Alle nostre lavatrici, lavastoviglie, asciugatrici, riscaldamenti centralizzati e temporizzati, ai nostri supermercati, agli acquisti online, alle consegne a domicilio di cibo, alle pizze in cartone, ai piumoni che non hanno più bisogno di avere le lenzuola sotto.

Penso a come guardiamo il mondo da sottoterra, da dentro un buco buio, stretto e fangoso di sensi di colpa dove le donne che non riusciamo ad essere rimangono intrappolate.

Per le cene calde che non riusciamo a cucinare.

Per i sabati mattina passati a pulire e le sere dopo cena a stirare.

Per le corse per riprendere i bambini dai nonni prima possibile con il senso di colpa per averceli lasciati e la voglia impellente di vederli, ma anche con l’impulso di rilasciarceli dopo soli due minuti di bizze perché non abbiamo le forze per affrontare tutto questo casino…

Per la fretta che abbiamo sempre e ci ha reso rigide e, spesso, indisponibili.

Perché tutto il resto viene prima di quel libro lasciato a pag. 123 da mesi.

Poi c’è la ricrescita. Poi c’è la depilazione. Poi c’è lo smalto che si sbecca sempre. E la prova bikini, naturalmente.

Penso a noi.

Alla leggerezza che abbiamo ancora in fondo in fondo, a questo grumo incrostato di tenerezza, capacità di abbracciare, occhi annebbiati da lacrime che rimangono lì, di forza di leggere ancora e ancora favole e di chiedere, spesso: «come stai» e di dire, spesso: «Ti voglio bene. Non avere paura».

E anche: «eccomi, stai tranquillo. Ci sono».

Perché, tra l’altro, e anche vero.

Noi ci siamo sempre.

 

ZUPPA ALLA VOLTERRANA

La zuppa. Preparazione lunga ma confortante. Preparazione che ci farebbe bene fare ogni tanto, per sentire il nostro senso di colpa sciogliersi al profumo delle verdure sul fuoco.
25 Km di curve (e che curve!) ci separano da Volterra. Tanti quanti consentono a questa zuppa di chiamarsi “alla volterrana” e sia mai “alla pomarancina", data la rivalità atavica tra questi ameni borghi toscani.
E' una ricetta che ho recuperato in un libricino di antiche ricette volterrane raccolte dagli studenti della scuola media Jacopo da Volterra e pubblicato dalla Coop. Un bel progetto.
Confesso alcune varianti di dosi e l'uso di fagiolini cannellini di Forcoli anzichè fagioli borlotti, come richiesto. Non è una miglioria da chef: semplicemente ce li avevo in casa!!
Preparazione30 minuti
Cottura2 ore 30 minuti
lessare i fagioli2 ore
Porzioni: 8 persone

Ingredienti

  • 500 gr fagioli cannellini di Forcoli, secchi
  • 3 spicchio di aglio
  • 3 foglie di salvia
  • 1 cipolla
  • 1 mazzettino di prezzemolo
  • 1 costa di sedano
  • 90 gr olio extra vergine di oliva
  • 2 cotenne di prosciutto (opzionali)
  • 1 mazzetto di cavolo nero
  • 3 zucchini
  • 3 carote
  • 3 patate
  • 200 gr conserva di pomodoro
  • sale, pepe
  • 500 gr pane raffermo

Istruzioni

  • Per prima cosa lessa i fagioli cannellini in abbondante acqua salata con 1 spicchio di aglio in camicia e la salvia.
  • Quando i fagioli sono pronti, prepara un battuto di sedano, prezzemolo e cipolla,e fallo soffriggere insieme agli spicchi di aglio in abbondante olio. Mettete anche le cotenne, tagliate a piccoli pezzi.
  • Nel frattempo taglia a pezzettini le verdure (zucchini, carote, patate e cavolo nero) e non appena il battuto è ben dorato, aggiungile.
  • Fai cuocere il tutto finché le verdure non sono ben appassite e poi metti la conserva di pomodoro. Falla andare per circa 10 minuti, il tempo che il tutto si amalgamerà. Dopo aggiusta di sale e pepe.
  • Nel frattempo prendi metà dei fagioli lessati e frullali con l'acqua di cottura. Uniscili alla minestra e fai bollire per circa 1.30 h, allungando con alcuni ramaioli di acqua calda qualora la zuppa si asciugasse troppo.
  • Alla fine aggiungi i fagioli rimasti.
  • Taglia il pane a fette sottili e, in una capiente zuppiera, alterna strati di pane e strati di minestra.

Note

La zuppa si serva calda, meglio tiepida, ancor meglio fredda, però, come scrivono i  ragazzi della scuola media Jacopo da Volterra, l'importante è mangiarla insieme alla cipolla fresca e del buon vino. E hanno ragione!
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oppure prova queste…

feta grigliata

feta grigliata

“IN UN PAESE ANTICO UN RAGAZZO CAMMINA IN SALITA ”
Silenzio assoluto.
Non rumore di vento perché l’aria è immobile.
Non rumore di uomo, perché a quest’ora non c’è nessuno.
Non rumore di mare, perché da quassù, in alto, lo possiamo solo vedere. Questo specchio blu.
Non azzurro. Non turchese. BLU. IL GRANDE BLU.
Oggi scrivo di te.

polpo all’elbana

polpo all’elbana

MEMORIE ELBANE N.2
Il mio babbo non smette di ricordare quelle estati infinite a Porto Azzurro.
Il profilo scuro dell’Isola è davanti a noi.
Lucciole lontane, nel buio, sono le luci di Capoliveri, Rio Marina e Naregno.
Lo sciacquio del mare, il rumore ipnotico del moto di ritorno delle onde che si infrangono sulla spiaggia suscita in Renato una risacca di ricordi, che rilascia ed abbandona, davanti ai nostri piedi, conchiglie di mondi scomparsi.

rigatoni alle cozze

rigatoni alle cozze

MEMORIE ELBANE N.1

Porto Azzurro, primi anni 60.
Uno scugnizzo magro, scalzo, con la pelle spellata dal sole, gli occhi ed i capelli scuri si incamminava verso casa.
Era affamato dalla mattinata trascorsa con una banda di giovani scalmanati a tuffarsi in mare dai barconi dei pescatori ormeggiati alla Rossa.
Ogni giorno, il ragazzino indugiava vagabondando tra il ristorante di Aladino ed il Delfino Verde di Paride: palafitte, a forma di nave, sospese sul mare elbano.

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