spezzatino con patate
11 gennaio 2020
IL PRANZO DELLE MEDIE
Al suono della campanella io ed i miei compagni di classe ci scaraventavamo fuori dall’aula, urtando sedie e banchi e, con una rumorosa corsa a spintoni, tra colpi di gomiti e zaini, uscivamo dalla scuola.
Il suono dei nostri goffi passi di preadolescenti acneici, con masse informi di capelli stopposi, risuonava sulla rampa rivestita di linoleum antiscivolo come quello di un branco di elefanti.
Appena varcata la soglia della porta a vetri, inspiegabilmente riprendevamo a camminare placidamente e lo sciame di ragazzini si disperdeva in uno slalom tra pulmini e auto dei genitori.
Io mi incamminavo lentamente verso la strada in discesa che mi portava a casa.
Lo zaino era pesante, la testa ovattata dalla confusione dei rumori di classe, nuovi concetti e caldo di aria chiusa.
Appena entravo in Via dei Frantoi mi accompagnava per un pezzo di strada l’odore dei caminetti accesi e del forno a legna della pizzeria Blasi: era inverno inoltrato.
Sempre, ancora oggi, quando percorro quella via e quell’odore mi entra nelle narici, qualcosa mi si aggroviglia nello stomaco ed una sensazione di intimità mi sopraggiunge, riportandomi nel cuore una moltitudine di ricordi di pomeriggi e di persone di ormai scomparse.
Salivo i duemila scalini di casa ed entravo. La tavola che mi attendeva era quella di mia nonna.
Questa precisazione sembra strana, lo so, ma io vivevo in un appartamento composto al suo interno da altri tre appartamenti: quello dei miei nonni, quello dei miei genitori e quello di Evera e della sua famiglia.
Alle nostre private abitazioni si accedeva tramite normalissime porte da interni che, ovviamente, erano sempre aperte, in un continuo entrare ed uscire di persone che, di fatto, vivevano insieme, nonostante la presenza di tre cucine, svariati salotti e bagni dietro ad un unico campanello.
Solo la mia mamma, giovane sposina, cercava di ritagliarsi inutilmente uno straccio di privacy, con ripetuti tentativi di cenare noi tre da soli o di appartarsi la sera nel proprio salotto. Io, ovviamente, ero sempre ovunque ci fosse più gente possibile all’interno di una stanza.
La tavola era rotonda ma molto ampia.
Io mi accomodavo insieme a nonno Gino. Poco dopo giungeva Renato, mio babbo. All’epoca era Sindaco e quindi arrivava sempre in ritardo e sempre di malumore: stato d’animo che ha conservato, Deo gratias, per tutta la sua vita, essendo una costante innata della sua natura al pari della grande intelligenza, della costante ansia e della capacità di dipingere quadri bellissimi, di forte impatto emotivo.
Spesso pranzava con noi Roberto, il nipote di Evera, che all’età di diciotto anni lasciò Milano per insediarsi in casa della nonnina.
Talvolta anche Evera si univa a noi; talvolta, invece, la vedevamo trotterellare lungo il corridoio per venire a sedersi sul divano di cucina appiccicato praticamente al tavolo.
Rosina NO, lei non si sedeva MAI.
Mentre noi mangiavamo, era sempre intenta a mescolare, riscaldare, ridurre salse, aggiustare di sale. Sempre con il mestolo in mano, sempre girata verso il piano cottura, di spalle al tavolino. Per questo, non si comprendeva come facesse a conoscere l’esatta quantità, IN GRAMMI, del cibo che avevamo nei piatti ed a subodorare il preciso attimo in cui ciascuno di noi avesse terminato la pietanza, in modo tale da girarsi di scatto e fiondarsi sul tavolo con il tegame in mano per porre la fatidica domanda: «Ne vuoi dell’altro?»
«No grazie, non mi va» rispondeva il satollo commensale e SBAM, un’altra mestolata di pasta o un’altra fettina di carne finivano nel piatto sotto lo sguardo afflitto e rinunciatario del parente di turno.
Il pasto era allegro, il clima ameno: il telefono squillava in continuazione perché, in ossequio alle più elementari regole della buona educazione, la gente chiama a casa del Sindaco ad ogni ora del giorno e della notte, soprattutto nelle ore dei pasti, lamentando immaginarie urgenze improcrastinabili.
L’umore depresso di mio babbo volgeva in rabbia violenta, che esplodeva più forte ad ogni squillo del telefono.
La TV era accesa sul telegiornale: ogni notizia veniva commentata da tutti in un crescendo rossiniano di toni e di umori dove nessuno ascoltava il parere di nessuno. Mia nonna piangeva sempre di fronte alle più varie tragedie riferite, asciugandosi le lacrime con un lembo del grembiule.
Poi, come se niente fosse, riprendeva a litigare con mio nonno; io litigavo col mio babbo – come sempre in tutta la nostra vita – e con mia nonna – come sempre in tutta la nostra vita; Evera litigava con tutti, dando sempre ragione a Rosina. Solo Roberto, da milanese distaccato, sorrideva beffardo della nostra vivace toscanità.
Durante questo ordinario caos, le pietanze che venivano cucinate da Rosa avevano l’esclusivo scopo di rifocillarci fornendo il corretto equilibrio nutrizionale necessario per ritornare alle nostre incombenze pomeridiane: Renato seduto sullo scranno comunale a firmare fogli ed a soppesare problemi; io ai miei compiti; Gino ed Evera sul divano a chiacchierare ed a guardare “OK il prezzo è giusto” e Roberto alle sue conquiste di latin lover dal fascino forestiero.
Dunque, mia nonna ci serviva, appropriatamente, pietanze light tipo: cannuccioni al ragù ripassati in forno con parmigiano e besciamella, lasagne, pasta condita col sugo avanzato di qualche cacciagione in umido, ribollita, rollè di vitello ripieno di uova sode, mortadella e spinaci accompagnato con purè servito con sopra il sughetto della carne, cavolfiore rifatto in padella con acciugata, lesso rifatto con cipolle e l’immancabile spezzatino con le patate.
Oggi noi a pranzo cerchiamo di proporre menù equilibrati e diete salutari, di dosare carboidrati e proteine, di assumere Omega3, di mangiare quinoa alternandola a farro, a miglio, ad amaranto, di guidare la conversazione verso toni leggeri ma anche impegnati, di chiedere ad ognuno come è andata la mattinata, indipendentemente dagli impegni e dall’età dei commensali, dai due ai settanta anni.
La televisione, come è giusto, è rigorosamente spenta.
Però, ripensandoci ora a quei tempi: quanta allegria!
spezzatino in umido con patate
Ingredienti
- 800 gr manzo tagliato a cubi o pezzi piuttosto grandi
- 1 noce di burro
- 5 cucchiai do olio extravergine di oliva
- 1 carota
- 1 costa di sedano
- 1 cipolla piccola
- qualche foglia di alloro, salvia, e un rametto di rosmarino
- mezzo bicchiere di vino rosso
- 2 cucchiai di concentrato di pomodoro
- sale e pepe
- 5-6 patate grosse
Istruzioni
- In un tegame dal fondo spesso metti una noce di burro a sciogliere e aggiungi la carne: lasciala rosolare e fai asciugare tutta l'acqua che rilascia.
- Intanto taglia a piccoli pezzi la carota, il sedano la cipolla e mettili a rosolare in un altro tegame con l'olio.
- Quando la verdura è pronta, metti nel tegame la carne e aggiungi anche la salvia, il rosmarino e l'alloro. Fai insaporire tutto perbene.
- A questo punto, versa il vino e fai sfumare.
- Una volta sfumato il vino, sciogli il concentrato di pomodoro in un pochina di acqua calda e versalo sulla carne.
- Fai stufare la carne per i tempo necessario, controllando bene l'acidità del pomodoro e facendo attenzione che il sughetto non si asciughi troppo.
- A circa mezzora dalla fine della cottura, aggiungi le patate sbucciate e tagliate in pezzi abbastanza grossi. Fai cuocere insieme alla carne e lasciale insaporire bene. Aggiusta tutto di sale e pepe.
OPPURE PROVA QUESTE…
polpo all’elbana
MEMORIE ELBANE N.2
Il mio babbo non smette di ricordare quelle estati infinite a Porto Azzurro.
Il profilo scuro dell’Isola è davanti a noi.
Lucciole lontane, nel buio, sono le luci di Capoliveri, Rio Marina e Naregno.
Lo sciacquio del mare, il rumore ipnotico del moto di ritorno delle onde che si infrangono sulla spiaggia suscita in Renato una risacca di ricordi, che rilascia ed abbandona, davanti ai nostri piedi, conchiglie di mondi scomparsi.
il caffè in forchetta
A RIEMPIRE UNA STANZA BASTA UNA CAFFETTIERA SUL FUOCO
Una caffettiera enorme era sempre sul fuoco: qualcuno stava sempre per arrivare.
Arrivava Ottorina ad aiutare a fare le torte e poi Roberta ad assaggiarle: sfregava il dito nel pentolino della crema, lo faceva scorrere per tutto il bordo e poi se lo infilava direttamente in bocca.
Arrivava il contadino a portare i conigli, tenuti per le gambe a capo all’ingiù, e Miro a salutare.
coniglio in umido con fagiolini
D’ESTATE ANDAVAMO A FORTE DEI MARMI
“La casa aveva un giardino…”
No, questo non è l’incipit di Vestivamo alla Marinara e no, non siamo la famiglia Agnelli.
Noi andavamo in Sardegna e, più precisamente, a Capo Testa.
Partenza 1 agosto. Ritorno 31 agosto.
Un mese spaccato di turchese e granito.
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